domenica 17 maggio 2009

Il perchè di una scelta




Né morti né schiavi. Sembra uno slogan ma non lo è. Il lavoro rende liberi non invalidi.
Mi chiamo Amalia Cocchini, ho 51 anni, vivo in Abruzzo, a Martinsicuro.
Sono un medico specialista in medicina del lavoro. Svolgo la mia attività presso la ASL di Teramo nel Servizio di Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di lavoro, e quotidianamente affronto i problemi legati alla micro-illegalità di cui il mondo delle imprese piccole e grandi è intriso e di cui l’attuale governo sembra essere il protettore istituzionale.
Mi confronto con i cantieri edili, con le industrie, con lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari, con il lavoro sommerso, con pratiche di insana incoscienza perfino nell’applicazione delle più elementari norme di sicurezza.
Mi occupo di infortuni sul lavoro, di morti sul lavoro, di malattie professionali che si sarebbero e si potrebbero evitare con il semplice rispetto delle norme esistenti.
Lo spregio con cui la vita umana viene considerata (per la pura logica di un profitto senza regole) fa da contraltare all’ipocrisia del mantenimento in vita ad ogni costo.
Le leggi che vengono emanate non tutelano adeguatamente i lavoratori tanto che, a volte vengono riviste e corrette dopo sanzioni emanate dalla Corte Europea per il mancato recepimento delle norme, mentre a volte si tentano colpi di mano nella speranza che nessuno se ne accorga, come ha cercato di fare il ministro Sacconi con la cosiddetta norma salva manager.
Se non se ne avessero parlato il Presidente Napolitano e i familiari dei morti della Thyssen, cosa sarebbe accaduto?
Qualcuno si è accorto che, se passerà, questo decreto correttivo ridurrà le sanzioni per tutte le figure responsabili della sicurezza sul lavoro tranne che per i lavoratori a cui saranno addirittura aumentate?
L’impressione è che le varie modifiche introdotte corrispondano ad una precisa filosofia ispiratrice, quella che considera la sicurezza sul lavoro una nemica dell’impresa, un “lacciolo” imposto da vincoli costituzionali ma di per sé portatore solo di costi ed oneri per le imprese.
Questa concezione non solo è in contrasto con il messaggio delle istituzioni europee che mirano a creare un modello imprenditoriale che si distingue anche per la qualità della sicurezza sul lavoro, ma è ERRATA soprattutto nei suoi presupposti.

Ogni 15 secondi, nel mondo, un lavoratore muore per infortunio o per malattie professionali.
In Europa ogni tre minuti e mezzo.
In Italia, nel 2007, i morti sono stati 1.200.
E oltre a quelli mortali, ci sono le migliaia di infortuni sul lavoro non mortali, ma gravemente invalidanti, e i nuovi casi di malattie professionali che si verificano ogni anno in Europa.
Tutto questo ha un costo altissimo, non solo sociale ma anche economico che si aggira intorno al 5% del prodotto interno lordo mondiale… nazionale… europeo…
Di questo costo complessivo, il 40% grava sul “sistema paese”, sullo Stato, mentre il 60% è a carico della stessa impresa (basti pensare che il costo complessivo di una giornata di lavoro persa a seguito di un infortunio, è superiore di quasi 6 volte a quello della retribuzione lorda della medesima giornata lavorativa). Questo semplicissimo calcolo, dovrebbe giustificare un forte interesse delle imprese (su cui grava il 60% dei costi), ad attuare quelle misure tese a rendere reale la prevenzione. Lo stesso interesse dovrebbe trovarlo lo Stato che, in assenza di adeguati atti governativi, continuerebbe a farsi carico del restante 40%.
L’intervento del governo, incredibilmente, va nella direzione opposta, quella di “liberare” le imprese dai “laccioli” della sicurezza.

Lo sforzo che dobbiamo fare è quello di smetterla di considerare la prevenzione e la sicurezza un costo e non un investimento. Per l’impresa i costi della non-sicurezza superano di gran lunga i costi degli investimenti in sicurezza.
Soprattutto in tempi di crisi economica, la sicurezza conviene.
Ma manca la cultura della sicurezza.
Questo sarà il mio impegno, la sicurezza sul lavoro. In Europa e in Italia.
Perché credo nel concetto alto e nobile della politica e sono convinta che mettersi al servizio della società tendendo realmente al bene comune, sia un dovere e non un obbligo.
Perché credo che dedicare una parte della mia esistenza a dare qualcosa agli altri non significhi beneficienza ma assunzione di responsabilità.
Non è possibile continuare a tollerare un mondo abitato da gnomi e da fate, da giullari e da maggiordomi che, come tutti sanno, appartengono al mondo della favole.
Quella italiana, da un po’, non è più una favola. Credo che tocchi a noi tutti ridarle una parvenza di storia che valga la pena di essere vissuta.
Prestami il tuo voto.

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